La casa editrice parigina L’Insomniaque ha pubblicato pochi mesi fa un interessantissimo volume sul fenomeno della pirateria in Somalia: Frères de la Côte (saggio in difesa dei pirati somali, nel mirino di tutte le potenze del mondo). Analizzando le condizioni socio-economiche e il contesto geo-politico del corno d’Africa, la loro inchiesta inizia additando le due principali cause che hanno generato la cosiddetta “pirateria”: la pesca industriale illegale perpetrata dalle compagnie dei paesi sviluppati, che ha decimato il patrimonio ittico (unica risorsa alimentare per la maggior parte dei somali); e il business dei rifiuti tossici (quando non radiottivi) scaricati nelle stesse acque con il beneplacito dei poteri locali. Riporto qui un paragrafo del libro:
Nel 1994 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati assassinati a Mogadiscio mentre investigavano, per la RAI, sui traffici internazionali di barili tossici. A Bosaso, i due giornalisti erano riusciti a filmare degli uomini in tuta di protezione che scaricavano barili metallici da un mercantile. La loro inchiesta tendeva a dimostrere che la Somalia era utilizzata come discarica da parte delle industrie dei paesi ricchi, che vi abbandonavano i loro rifiuti tossici e altre sostanze di cui volevano sbarazzarsi. L’Italia, attraverso la ‘Ndrangheta, ma anche altri paesi e personalitá del mondo politico e industriale, è implicata in questo traffico mafioso. Dal momento che queste informazioni sarebbero state trasmesse alla loro redazione, Ilaria e Miran furono uccisi.
Francesco Fonti, un pentito della mafia che operava in questo ramo del commercio di rifiuti pericolosi, dichiaró a questo proposito: <<Ho portato di persona dei residui radioattivi nel Corno d’Africa. Quando arrivavamo nel porto di Bosaso, i militari italiani (allora presenti in Somalia nel quadro delle forze inviate dall’ONU) guardavano altrove. Sono convinto che Ilaria Alpi è stata ammazzata perché ha visto delle cose che non doveva vedere.>>
Una commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte dei due giornalisti, i cui lavori sono macchiati da diverse irregolaritá e omissioni, ha concluso seriamente che si trattava di morte accidentale, avvenuta durante un tentativo di furto.
Gianpaolo Sebri, altro ex trafficante di rifiuti che collabora da qualche anno con la magistratura italiana, ha dichiarato in una testimonianza: <<Non so quanti rifiuti sono stati mandati in Somalia. La Somalia è diventata una nuova spazzatura, ma anche la destinazione di diversi carichi di armi. So che questi affari si potevano realizzare grazie alla partecipazione di gruppi mafiosi che ne garantivano la protezione.>>
Un altro pentito, Guido Garelli, dichiara: <<Ilaria Alpi ha scoperto il segreto piú gelosamente custodito in Somalia: la discarica di rifiuti, pagata con tangenti e armi da almeno vent’anni. L’organizzazione di tutto questo traffico era appannaggio dei servizi segreti, implicati in quello che è senza dubbio uno dei business piú lucrativi del momento. E non parlo solo del SISMI e del SISDE. Ci sono anche organismi analoghi di altri Paesi, che hanno fatto ricorso a vari Stati africani per sbarazzarsi delle loro porcherie.>> Nell’ambito di una inchiesta scaturita dalla confessione di un membro della ‘Ndrangheta che riconobbe di aver affondato navi cariche di rifiuti tossici nel Mediterraneo, Guido Garelli ha rivelato un’altra operazione di cui era stato il promotore: Urano. Il primo progetto prevedeva infatti che i rifiuti dovessero essere interrati in un cratere naturale situato nel Sahara occidentale. Ma alla fine è nel Corno d’Africa che questo progetto sará realizzato, col nome in codice di Urano II.
Se già nel 1994 era chiaro che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano stati assassinati per aver ficcato il naso in questo lucrativo traffico, fu solo 10 anni dopo, quando lo tzunami sollevó vari barili di residui nocivi dai fondali e li spinse sulle spiagge, che le prove vennero alla luce. Gli autori di Frères de la Côte citano a piú riprese il documentario di Paul Moreira, Toxic Somalia:
Il libro spiega bene come i cosiddetti “pirati” si considerino in realtá dei “guardiacoste volontari”, e ricompila diverse interviste ai protagonisti di alcuni abbordaggi:
<<Ho 42 anni e nove figli. Comando delle barche che operano nel golfo di Aden e nell’oceano Indiano. Dopo gli anni del liceo, volevo frequentare l’università ma non avevo soldi. Allora sono diventato pescatore a Eyl, nel Puntland, come mio padre, anche se sognavo di lavorare per una azienda. Questo sogno non si poté concretizzare perché il governo somalo è stato distrutto nel 1991 e il paese è diventato instabile.
In mare, le navi da pesca straniere ci attaccavano spesso. Certe non avevano nessuna licenza di pesca, altre ne avevano ottenute dalle “autorità” di Puntland e ci proibivano di pescare. Distruggevano le nostre barche e ci costringevano a fuggire per aver salva la vita.
Mi sono messo ad attaccare queste navi da pesca nel 1998. Non ho ricevuto nessuna formazione militare, ma non avevo paura. Per la nostra prima presa, abbiamo ottenuto un riscatto di 300.000 dollari. Con questi soldi, abbiamo comprato degli AK-47 e dei fuoribordo. Non so quante navi ho catturato da allora. Una sessantina, almeno.
Preferiamo attaccare delle navi europee, perché otteniamo dei riscatti maggiori. Siamo amichevoli con gli ostaggi, gli spieghiamo che vogliamo solo il denaro, e non li vogliamo uccidere. A volte mangiamo pesce, riso o pasta insieme a loro. Quando arriva il denaro, contiamo i dollari e rilasciamo gli ostaggi. Poi i nostri amici vengono a celebrare il nostro ritorno a Eyl e andiamo tutti insieme a Garowe in dei Land Cruisers. Lí dividiamo il bottino equamente.
La nostra comunitá ritiene che siamo dei pirati e che guadagnamo i soldi illegalmente. Ma noi, ci consideriamo come degli eroi che sfuggono alla povertà. A noi gli atti di pirateria non ci sembrano atti criminali, ma una tassa, un diritto doganale, perché non abbiamo nessun governo centrale che possa controllare le nostre acque.>>
Ma se fin qui il libro tratta di argomenti giá noti, anche se poco pubblicizzati, come le cause della “pirateria” somala, è nell’ultima parte del saggio che gli autori indagano su un aspetto ancora poco dibattuto: che fine fanno i “pirati” catturati, e il bilancio delle operazioni militari internazionali in atto nelle strategiche acque territoriali somale. Infatti, il destino dei Somali catturati in queste operazioni è completamente aleatorio, e dipende in buona misura da che marina militare li ha arrestati. Gli indiani e i russi sono tra quelli che vanno meno per il sottile, e oltre a ucciderne di piú durante le operazioni, generalmente condannano all’ergastolo i superstiti. Gli americani e gli europei, non meno prodighi di ergastoli, sono invece pionieri nel creare delle leggi speciali ad hoc, violando i principi piú ovvi del diritto internazionale, per poter agire militarmente contro i presunti pirati non solo in acque somale, ma persino sul loro territorio!
Per concludere, oltre alle statistiche sui pirati “giustiziati” durante e dopo le operazioni di riscatto (visto che spesso vengono uccisi dopo che gli ostaggi sono stati resi, al solo fine di recuperare i soldi del riscatto), gli autori analizzano le statistiche del giro d’affari che ruota intorno alla pirateria: infatti, lungi dal dissuadere gli armatori e limitare il traffico marittimo nella zona, i pirati hanno invece generato involontariamente un business 500 volte piú importante delle somme che essi stessi riescono a procurarsi con le loro azioni.
Le cifre d’affari derivate indirettamente dalla pirateria superano ampliamente le sole rapine dei pirati. Nel 2008, l’istituto britannico Chatham House stimava la somma dei riscatti tra i 16 e i 30 milioni di dollari, mentre 16 miliardi di dollari erano già stati spesi per fare la guerra ai pirati, finanziare la protezione preventiva delle navi e coprire i sovraccosti indotti dalla minaccia filibustiera, specialmente in spese assicurative e carburante. La pirateria genera cosí un mercato accessorio al trasporto marittimo, un’economia dell’antipirateria. E i ricavati reali dei pirati appaiono veramente irrisori in confronto ai profitti che “predatori” di tutt’altro genere traggono da questi fruttuosi fondi di commercio.
2 comments
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Paolo Stella
June 23, 2017 at 3:30 pm (UTC 0) Link to this comment
Grazie per aver dato una possibile risposta all’incredibile disavventura dei nostri reporters
thanx for sharing this
Giovanni
March 3, 2019 at 5:25 pm (UTC 0) Link to this comment
Bellissimo reportage che da onore a voi giornalisti sopratutto ai colleghi assassinati e diffamati solo per essere stati ad un passo dalla verità. Peccato che le inchieste ancora una volta sono state insabbiate grazie alla complicità di magistrati burattini che procedono con l’archiviazione delle stesse per la tutela dei potenti business.
¿Quienes son los verdaderos piratas? | L'Alliance
December 12, 2014 at 7:38 pm (UTC 0) Link to this comment
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